«Amore a Venezia è un inno ai piaceri del mondo fenomenico, velocissimo e divertentissimo. In Morte a Varanasi la scrittura di Dyer è al suo meglio: filosofica, astuta, destrutturata, oscillante tra la superficie e la profondità, tra il casuale e l'universale. Uno dei migliori libri di Dyer».
Il suo indimenticabile ritratto dei grandi del jazz, Natura morta con custodia di sax, ha reso Geoff Dyer un autore di culto. Lo scrittore inglese, di cui Einaudi ha pubblicato il saggio L'infinito istante, torna ora al romanzo dopo undici anni e l'accoglienza ricevuta da Amore a Venezia. Morte a Varanasi è stata a dir poco eccezionale: «Un vero tesoro nazionale» secondo Zadie Smith, «Un libro sorprendente» grazie al quale «Venezia non sarà mai più la stessa» per Michael Ondaatje, mentre Alain De Botton ne ha consigliato la lettura dicendo «Vi prego, investite un po' del vostro tempo e lasciatevi incantare da Geoff Dyer».
Al centro del romanzo, che riunisce due lunghe storie, Jeff Atman, critico d'arte londinese che odia il suo lavoro. In trasferta a Venezia per scrivere un articolo sull'apertura della Biennale, Atman viene coinvolto in una relazione appassionata con Laura. Ironico e cinico, Amore a Venezia sembra la risposta di Dyer a La morte a Venezia di Thomas Mann, con Atman nei panni di un ben poco spirituale Aschenbach. Ha scritto il New Yorker: «Il gioco è questo: Che cosa sarebbe successo se Aschenbach avesse tenuto testa al giovane Tadzio? Avrebbe il sesso trionfato sulla morte?»
Nella seconda parte ritroviamo Atman (il cui cognome in sanscrito significa «essenza») a Varanasi, la città sacra dell'induismo sulle rive del Gange. Immerso nell'atmosfera decadente della città, Atman si perde nella folla tra santoni con «capelli grigi e una barba che sembrava ricavata dal manto di un animale a pelo lungo, di origini mitiche, prossimo all'estinzione e completamente privo di freni» e donne con sari rossi e gialli che passano «sfarfallando come fiamme». E tra passione e ascesi, Dyer firma un altro dei suoi libri «così inimitabili da fondare ognuno un nuovo genere» (The New Yorker).
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